Bye Bye Bombay

Non lo ricordo come è stato. Non tutto, quantomeno, non ogni singolo passo.

Ricordo il buio di certe strade, dentro e fuori me, e ricordo che guardavo spesso la punta delle mie scarpe nell’andare, quando ero da sola, nella notte, e tornavo convinta verso casa. Mi piaceva quel movimento lì, guardarlo, sapere che se andavo da qualche parte andavo perché spingevo io da sola, nella vita, nella strada, dentro me.

Libera.

Ho sempre desiderato di sentir quella forza là, quella che sa darti quel sentirsi non soli, ma liberi, nel silenzio, quando si fanno i conti solo con se stessi. Liberi da sé, pur essendo predisposti verso gli altri, liberi da sé e quindi dagli altri per poter stare davvero in mezzo agli altri, con gli altri.

Non sempre l’ho afferrata, quella forza là, ma quando è successo è stato come aver bevuto fiumi di alcol. Volare fortissimo, dentro, senza la paura dell’atterraggio brusco che ne viene, sapere che avverrà quell’atterraggio lì, sapere che è alla fine della corsa, la tua, ma sei così inebriato e coglione che ridi di quando avverrà, all’idea di te che finirai ancora culo a terra e gambe all’aria per il solo fatto di averci creduto e io me la ricordo quella volta là, quella in cui ho detto: “Sono anni che attraverso questa strada e tutti corrono fortissimo, fa paura, e non ti godi mai le torri viste da qua ché devi solo attraversare e star attento al traffico, ma stasera, stasera, han chiuso il traffico per tutta la notte, per la prima volta da quando vivo qua, e allora se è vero che mi ami, lasciami stendere due minuti lungo la linea bianca, di mezzo, di questa strada, senza giudicarmi, mentre tutti passeggiano intorno a me, vanno da qualche parte, lasciami stendere in via Ugo Bassi, voglio sentir questo cazzo di asfalto lungo la schiena ché su questa via ho solo corso, per anni, e stasera voglio fumare una paglia, senza fretta, stesa in questa minchia di strada a chiacchierare con te mentre mi godo le torri viste da qua” e tu ti sei semplicemente steso con me lungo la via come chi vuol scoprire che, sì, ci puoi pure stare ogni tanto a guardare il mondo dalle prospettive degli altri e che, alle volte, è come una festa e hai salutato contento tutti quelli che passavano e ridevano divertiti nel veder due coglioni stesi sull’asfalto, a chiacchierare, come fossero stesi in spiaggia.

Non lo ricordo ogni singolo passo fatto qui, tra queste strade, questa gente, ma ricordo chè è stata come la festa più grande della mia vita, la festa della mia vita, la mia festa. Il miglior compleanno di sempre, quello che fa allegria e ansia insieme e non finisce mai. L’amore, la rabbia, la felicità immotivata e le frustrazioni fortissime, le lacrime, il silenzio e l’energia.

Ho corso, ho corso fortissimo tra queste strade, sempre con l’energia di chi sta bene in solitaria ma pur sempre in squadra, anche in retrovia.

La corista, potessi tornare indietro nel tempo, e realizzare un sogno incredibile, allora sì proverei a diventar la corista di The Voice, fare il botto, veder tutto quel buio lì di una sala, un attimo prima della corsa, vestire un abito lungo nero e bellissimo, sentire le luci, prima ancora di vederle brillare sullo sfondo e dar quella forza là, della retrovia, ché nulla è meraviglioso, per me, in certi momenti, come la forza che viene dal fondo.

Ché alle volte sei quello in prima linea sul palco, altre volte sei la squadra senza la quale non c’è alcun meraviglioso, spettacolare, salto.

Ho chiuso gli occhi stasera e fatto un passo indietro lasciando libero il palco per veder che salto possiamo fare. Mi puoi riconoscere, son l’indole intenibile che stasera ha scelto di vestir l’abito migliore, messo su un rossetto bellissimo, per aiutarci in quel salto.

That’s life.

 

 

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Animali notturni

La strada che ho fatto, il voler accomodare sempre le cose nella vita degli altri, il pensare comunque, di istinto, che in qualche modo, pur sacrificata di stanchezza nel cuore, me la sarei cavata, sarei arrivata a riva, sapendolo fare o improvvisando di contingenza. Io sì. Non importava. Meglio a me che a un altro.

Hai strutturato, così, l’indole intera.

Meglio pagar quel prezzo io che un altro, ti sei detto, come a proteggere sempre qualcuno pur sapendolo, magari nella quotidianeità, più forte,  scaltro, di te e poi, invece, c’era l’arroganza di questo pensiero qua, che non hai capito, non subito, almeno, ché nasceva come eroico dentro te e invece poi ha distrutto cose e pure te.

La curiosità, la voglia di regalare agli altri quell’attimo di gioia lì, che vien dall’esplosione del riappropiarsi di pensieri e voleri stupidi, semplici.

Andava bene sacrificare se stessi per avere in dono la frazione di quel sorriso lì e poi, alla fine, ti sei come perso, nell’emozione tua o nell’accumulo di quelle altrui.

Per primo io e dopo gli altri, amore mio, nemmeno mi ricordo quando io compio gli anni.

So thank you

La porta che si apre e tiene la destra, curvando. Tutto tiene sempre la destra, nel mondo degli oggetti, mentre tu sei programmato al contrario.

Sipari al contrario si aprono, da sempre, davanti a te e impacciato arrivi sulla scena, come a chiedere scusa, ché mente tua si apre mancina, al contrario.

La porta che si apre e tutto è in ordine e in ordine non hai messo tu. Il tuo compito è, da sempre, tenere in ordine l’ordine scelto da altri. In quell’ordine ti accomodi, provi a capirlo, sgrani gli occhi come di entusiasmo e curiosità ed è sempre come sipario che si apre sulla destra, per te. Ne sei come affascinato e spaventato. Non sai mai se inciamperai, pensando il mondo al contrario.

Si apre sulla destra e quell’errore là, l’ordine, il fatto che ti sia cosa altra eppure nota e dentro cui, di rispetto e timore, ti muovi, ti fa come tirare sospiro di sollievo.

Ti sei come accomodato in quell’idea là, quella paura che ti porti dentro, che gli altri son migliori di te, fanno meglio di te e allora, alle volte, neppure ti sei preso la briga di provarci ché non volevi sentirtelo dire ancora che potevi fare meglio e allora hai preso a selezionare le cose per le quali provarci, provarci davvero.

Limita il danno di parole che ti uccidono, mentre sorridi e ti dici che no, non è successo niente.

Non è mai successo niente ché, del resto, a incassare sei sempre stato portato.

La porta che si apre, un ordine non tuo e posi piano le scarpe, nel toglierle, sfili via i vestiti e li sistemi sulla spalliera del letto. Ti muovi leggero entro mondi altrui pur essendo solo tuoi. Con una doccia lasci indietro il tempo e in quel silenzio lì, quello che fa l’acqua quando scorre giù dalla testa, in quell’eco lì, quello che fa tutto il silenzio tuo, niente esiste più, neppure tu.

 

Chocolate candy, Jesus Christ

I viaggi in treno, infiniti, e hai perso il conto che non hai tenuto mai.

Il correre e il fiatone o i passi lenti, misurati, uno davanti all’altro sulla banchina. Tieni l’equilibrio e i pensieri, l’equilibrio e i pensieri, mentre giochi a ingannare il tempo e il tempo inganna te.

Ricordi distorti, rifatti dal principio, che rendano giustizia a chi hai colpito per esser risultato, dentro te, per niente scaltro rispetto al canone tuo. Ah veemente e arrogante gioventù tua e ora ti manca quella spinta là, il giorno in cui non te ne penti o non ne sei come stanco.

Un canone inverso.

Dignità che non hanno avuto mai, esseri umani, ma la tiri fuori e gliela rendi come da dentro al marmo, a colpi di scalpello, immaginifica opera che segni il tempo della gravità, il peso di un perdono, quello che chiedi a loro, dentro te, per aver colpito.

Incidi un ricordo e lo lasci andare. Un sipario che si chiude davanti al tuo teatrale inchino, che renda il grazie che porti dentro, se non hai voce per quel grazie là.

Più di questo non hai saputo dare mai, nel tempo giovane tuo, per chieder perdono, dire grazie, sculture di rammarico e senso di colpa, ma hai chiesto perdono, dentro te, silenzioso rispetto. Intima indole tua e ti sei maledetto dentro,  ma dentro, invero, sei pure in un ottocento polveroso perenne, scocchi in una frustata le briglia e il tuo calesse parte periglioso in galoppo e lascia di te solo il ricordo, polverose gonne.

Non si vedono le lacrime, dicono, se sei di spalle.

La forza dentro te, fragile cosa che proteggi come fosse tutto quello che hai, come volessero portartela via e non hai tempo per quella paura là. Non ne conosci più il suono ché di paura ne hai provata quando eri alto come un cuscino e non capivi la furia di chi si riversava contro te. Incredibili piume ha un cuscino. Bellissime piume, quelle le ricordi. E’ tutto il ricordo di quella paura là, quello che la tua mente porta con sé, una scelta di felice magia e se chiudi gli occhi vedi solo le piume che volano intorno, sopra te, ed è come dono, attimo meraviglioso. Si è rotta, così, la paura.

Un calesse su una strada polverosa, le porte di un saloon che si spalancano e strizzi l’occhio a un caballero, la furia cieca, un teatro e le luci che si spengono. Il tempo. Tutto quello che hai, che resta. Una giostra a forma di nave che ti lancia in picchiata con tutta la forza che ha, in una festa di paese, e tu che chiedi a tua nonna, euforica, se da grande puoi fare il pirata, ché vuoi fare il pirata come i cugini maschi tuoi, quando è carnevale, e lei dice che sì, ma prima devi finir di mangiare la ciambella e tu finisci la ciambella. Velocissima.

Carnevale. Ci sei nato durante il carnevale e tuo padre ha sempre detto che è come un marchio tuo. Un carnevale perenne. Dolorosa maschera fintamente allegra. Euforia felice e malinconica insieme. La forza della distruzione che ricrea vita ancora e ancora. Padre, niente è più vero di così, in questa strada fredda in cui mi hai lanciato d’amore, parole di poesia che mi hai insegnato perché non perdessi la rotta mai. Un indovinello. Cresciuta a indovinelli, ché la vita mi fosse mistica e lieve insieme, avanzando dentro a un dubbio perenne come fosse un gioco. Una soluzione da trovare, che fosse spinta, giocosa sfida che ti tiene impegnato e resti vivo.

Ci sei nato durante il carnevale e quel tempo lo senti tornare, adesso. Lo osservi avanzare davanti, dentro te, e ti fa stringere di più in una giacca e chiudi gli occhi.

Chiudi gli occhi sempre, poco prima del carnevale, ché c’è dentro tutta la strada tua, quella che non racconti, ché c’è una strada dentro te, dentro ognuno, che non sarà d’altri mai.

Che tu possa proteggere all’infinito quell’incondivisibile silenzio tuo, toccar per me le vette che non sarò buono mai a sfiorare io.

Trentasei

Un libro che sfogli, il tempo che impieghi a sceglierne uno e la sensazione lieve che quel tempo che impieghi nelle cose, il tempo che ha a che fare solo con te, alle volte, infastidisca chi è con te.

L’attesa che provochi tu, nel tempo degli altri. Il tempo fatto solo di te e che non vuoi più si fissi come ricordo nel tempo altrui se è fatto di rifiuto, che ne sei come stanco e ti fa arrossire e hai come imparato nel tempo a non arrossire di imbarazzo e poi l’imbarazzo si è trasformato in silenzio.

Il peso delle cose, tutte quelle più complesse che accantoni sempre come difesa, come le volessi dimenticare, ché non hai avuto spalle grandi mai, questo lo sai e le dipani a rilascio lento, per affrontarle pian piano commisurate alla forza che hai. Strategie di sopravvivenza che hai imparato nel tempo.

Le scarpe così piccole che fissi, alle volte, poco prima di indossarle e sei stato contento quando, all’improvviso, indossavi il 37 e pensavi di esser nel mondo dei grandi, anche tu, e invece era un inganno, ché poi son tornate le vecchie unità di misura e porti ancora, sempre, il 36.

Le illusioni e le storie che ti racconti, il modo in cui dentro di te, nel tempo, migliorano i ricordi, gli sguardi e degli altri, poi, vedi solo la poesia e se odi attendi il tempo della sua fine, ché svanisce sempre dentro di te l’odio e diviene confine. Un confine entro cui sei solo e ti stringi in una giacca o sciarpe più grandi.

I mondi fantastici che hai creato con la mente, poco prima di dormire, quando al mattino la voce di tua madre ti svegliava e dovevi correre a scuola e guardavi di soppiatto quel grembiule piccolo e bianco e speravi non fosse stropicciato, ché te lo avevano detto una volta che lo era e ci eri rimasta così male che poi quella notte lì non avevi dormito, come avessi sbagliato di uno sbaglio irreparabile e non l’hai detto a nessuno mai.

Le cose che non puoi cambiare, tornare indietro e strappare, lanciare in aria per vederle esplodere in un universo di colori che siano felici come felice non sei stato bravo ad essere tu.

Libero, però, lo sei stato.

Una corsa coi piedi che sprofondano nella sabbia bagnata in quella sensazione di libertà che è impressa dentro di te, memoria del corpo, e un tuffo, tuo padre che ti tiene da sotto la schiena con una sola mano e poi ti lascia andare per insegnarti a stare a galla e la sua voce che è sempre stata uguale nel dire “Dai, che ce la fai”.  Stesso tono che si apre dopo una pausa fino a un sorriso ed è dentro di te con la forza di una spinta, quella mano che viene meno all’improvviso e ti lancia nel mondo, da solo, ed era lì in tutte le notti in cui hai attraversato da sola una città che non conoscevi, non capivi. Era lì tutte le volte in cui sei caduto e non l’hai raccontato mai, era lì tutte le volte in cui ha perso tempo per non saper affrontare la paura e alla fine ti sei detto che la paura era come una spinta, ché lo avevi letto da qualche parte e allora sei semplicemente andato avanti, pure se arrancavi. Sempre e solo avanti, pur col cuore piccolo che hai.

Tutti i libri che hai letto, che ti hanno aiutato e distrutto. L’amore incastrato in pagine e pagine di secoli di vita altrui e allora hai come sognato di sfiorar la schiena di Fante, quando era china su una macchina da scrivere in una stanza buia e umida, per digli senza parole, senza disturbare, che ce l’avrebbe fatta, avrebbe toccato gente come lui, con quel dolore, silenzioso, dignitoso suo, quella energia là o avresti voluto voltarti e trovarvi Saroyan, per sorridergli d’amore e ti sembra abbia un senso tutto suo il fatto che sia andato via l’anno in cui sei nata tu. Sta lì a proteggerti.

La luce piccola che ti guidava, in giro per la casa, se di notte ti svegliavi e te ne andavi, non vista, scalza per casa ché ti avevano detto che non stava bene girare scalzi, ché ti raffreddi e allora ci andavi, scalza, sapendo di poterla, di notte, fare franca.

Il silenzio e poi il fumo di una sigaretta. Una madre per te bellissima da giovane, quando la guardavi fumare a sera, seduta sulle scale che portavano al piano superiore, una vestaglia bianca lunghissima che nella penombra ti pareva come un faro cui arrivare, i miei anni di oggi uguali e così diversi e quegli occhi così scuri che pareva dentro non ci fosse nulla e invece c’era un mondo. Tutto quello che non hai capito mai.

Il suono di tutte le cose che non sai e hai come una fretta, dentro, una emergenza, le accuse, l’amore che è dentro di te come ideale che protegga chi incontri, come si potesse davvero.

Il tempo, il freddo e così avanzi spegnendo dentro te tutto il tempo che hai sbagliato, come non fosse esistito mai. Luci che spegni uscendo da casa.

Un sipario alle tue spalle e ti riconosci nella strada, come ci fosse qualcosa di selvaggio in te che la strada sa. Un linguaggio della strada che torna alla strada, in silenzio, senza chiedere. Un silenzio in cui sei al sicuro. Una corsa lunghissima che non ti chiede perché mai.

Everything is always

I passi che conti, sempre uguali.

Le strade che percorri, sempre uguali.

Memorizzi nell’andare i volti che incroci mentre acceleri e curvi sotto i portici, sempre uguali.

Hai preso come a controllare da un po’ che tutto sia al suo posto, hai come paura di scordare, di trovare qualcosa fuori posto, di tutte le cose che vedi fuori posto ormai da anni, in questo andare.

Hai come paura che la vita le porti via, le ferisca.

Non sai dire quando è cominciato, perché sia cominciato, ma hai preso come a guardare mentre andavi, segnare i metri del tuo percorso sempre uguale attraverso i volti che sai vi troverai.

La signora che prova a vendere dei giornali ai passanti, ferma sull’angolo. Tranne a me. Mi saluta solo, quando mi vede, non allunga mai un giornale verso di me, sorride solo e dice ciao. Io sorrido di rimando. Di lei conosco solo quel sorriso lì, rapido, traversale mentre curvo. Mi sorride come fossimo amiche, come non volesse niente da me, tranne questo riconoscerci tutte le mattine e io, curvando, la riconosco. E’ parte delle cose che so.

Il signore che vive a metà della strada, dove la stessa rientra e tira meno vento. L’ho visto scegliersi quel posto lì, negli anni. Litigarselo, una volta. Ha vinto lui. Ha come studiato la strada e so che la conosce meglio di me. Mi guarda rabbioso, certe mattine, ma so che non mi vede, in quelle mattine. Insegue demoni suoi e altre mattine mi sorride, mi avvisa quando, andando di corsa, rischio di perdere la sciarpa che scivola via dalla borsa dove l’ho incastrata se ho caldo nella corsa.

Mi chiedo spesso cosa pensi di me. Ride quando mi vede apparire in fuga, credo sappia in qualche modo che, in quelle mattine lì, io sono in ritardo. Devo fargli simpatia, in qualche strano modo. Lui ride guardandomi e sorrido complice anch’io, come avessimo un segreto.

Il rumore della saracinesca di un caffè che apre e il ragazzo che ci lavora e alle volte mi saluta, altre mi guarda come a chiedersi dove mi ha già vista e io rispetto quel silenzio lì e non dico niente, tiro dritto e non dico niente.

Gli abiti svolazzanti di una signora senza età che ogni tanto salta fuori dal suo negozio di cianfrusaglie per fumare una sigaretta sotto il portico. Credo fumi più di me, la guardo e so che fuma più di me. Se ne sta lì davanti al suo negozio che io vedo sempre vuoto e se c’è gente è gente che conosce, si ferma e chiacchiera con lei. Fissa il suo negozio e non so se le importi, importi davvero, dico. E’ come parte di quel posto lì e mi rabbuio spesso, nel vederla, perché è come se non sapessi da quale epoca viene, come fossi convinta che sia qui per sbaglio. Anche io sono qui per sbaglio.

Il giornalaio che credo non venda più giornali, da quando si è dato massivamente ai souvenir e non so cosa provi. Come è quel posto lì senza l’odore di tutta quella carta stampata. Gli piace ancora?

Le signore che a due a due puntano verso la chiesa sulla destra. Uno dei proprietari di un palazzo antico che da mesi monitora la pulizia della facciata del suo palazzo dalle scritte che lo hanno imbrattato. Si sposta sempre di poco, quando passo io, quel poco che basta per farmi passare, non credo mi veda davvero, automatismi.

I negozi nuovi, i ragazzi che ci lavorano. Un vecchio negozio che ha chiuso per sempre ché la proprietaria ha deciso di averci passato dentro mezza esistenza e una sera ha detto a qualcuno che era tempo di vivere la vita che voleva.

Alzo lo sguardo e son fuori dalla mia strada, le strisce pedonali e la luce fortissima di quando riemergi da una galleria, il portico alle mie spalle, il vortice di un mondo tutto mio che mi aspetta a sera.

Tutto il mondo che so, che mi avvolge e spaventa. Una nuotata lunghissima verso la luce che circonda quella penombra lì, microcosmo delle paure che ho.

 

 

Canto un mondo che non c’è

Le calze che accartocci nel riporle nei cassetti, quelle che lanci in giro quando te le sfili ché non è che non ti importa dell’ordine, ti piace proprio sapere che stai facendo disordine. Ti piace proprio sapere che nessuno avrà da puntualizzare su una cosa così piccola, inesistente rispetto all’esistenza tutta.

E’ come un urlo che parte da dentro e dentro resta e il silenzio entro cui fa eco è tipo l’esplosione all’ennesima potenza.

Le cose che non trovi e non ti importa. Le cose che confondi, le date, i regali, le persone.

Il fiume entro cui ti sembra sempre di scorrere. Mortificazione e dubbio altrui e hai come deciso, a un certo punto, di non tenere niente a mente, lasciar alla corrente il governare, o è solo successo.

Hai come alzato il bavero del cappotto, nell’andare, ché ti pareva come poetico.

Vedere come viene. Scoprire che sei buono, alla fine, anche nel “viene come viene“.

Dire a te che la forza tua, l’energia che ti spinge e ammazza insieme, non è in quell’insegnamento del controllare, far le cose fatte bene, rispetto a cosa, non si sa.

La forza tua è nel far bene, quando tutto sfugge al controllo, e acchiappi il bandolo alla fine, quando nessuno ci crede più. Neppure tu. L’eroe in cui nessuno crede, l’eroe improbabile, che alla fine, con un colpo di coda, ti porta a casa, al sicuro.

Un urlo dentro. Costante.

L’urlo di chi arranca, ma sa che la riva arriverà. E’ là. Solo uno stolto non la afferra.

La forza di chi sa che anche il non prendere la riva è vita e riva insieme ancora.

Un urlo dentro che è come me.

Un urlo senza fiato e incrina peggio di un boato.

 

 

Io sono un cane

Il suono dell’ascensore, le porte si aprono e quasi ti ricomponi. Automatismi e torni come lucido. Ingoi. Automatismi. Ti sei forse accasciato in quel silenzio di luce rarefatta dell’ascensore? No, eri rigido quando ti sei ricomposto. Viene da dentro. Ti sei come accasciato dentro. Ti ricomponi se le porte si aprono, come dovessi incontrar qualcuno di estraneo. Educazione. Automatismi.

Si aprono le porte dell’ascensore, poi il portone del palazzo segue il passo e si spalanca sulla via. Automatismi.

Ti colpisce il freddo e prima ancora la serie di sacchi accatastati subito a destra. Il rusco di un intero palazzo. E’ come una cosa umana che non vuoi vedere. Distogli lo sguardo, imbocchi la via.

Ti prendono i suoni intorno, infili le cuffie.

Il silenzio ovattato delle cuffie, nell’attimo prima che partano i suoni che vuoi, è dove sei. Proprio dove sei. Una frazione infinitesimale di secondo. Lo dimentichi mentre si parcheggia lì, dentro e partono i suoni del pezzo che hai scelto.

Stormi.

Segui i passi che seguono la musica. Il silenzio dentro si fa come tondo, scompaiono gli spigoli. Senti l’impatto dei passi al suolo, come eco dentro e tiene il ritmo, l’equilibrio.

Vedi le luci dentro le finestre mentre vai, è una malinconica dolcezza. Hai sempre guardato le luci dentro le finestre. Si vedono meglio in estate.

Quando le guardo mi sembra vada tutto bene nella vita di quelle persone là, che vivono là“, hai detto una volta e ti hanno guardata incerti. L’hai detto poche altre volte, dopo.

Schivi l’impatto con i corpi che incroci. Ombre.

Curvi dentro, curvano i fianchi. Le labbra si stringono. Tengono il passo, la coreografia dei pensieri che si realizza mentre vai. Si mescola tutto come una forza che viene da dentro, è dentro. La dipani col silenzio, dentro, e si apre, ricontorce davanti a te, nella mente, mentre vai, è ipnotico movimento, ti ricorda una cosa orrenda letta tempo fa. Van Gogh mescolato in digitale. E’ solo un modo brutale e riduttivo per dirlo, per questo ti piace. Sorridi. Amaro.

Chiudi gli occhi mentre va, dentro. Nulla ti spaventa di questo andare. E’ solo come una confusione. Nella confusione sgrani come gli occhi a renderla vacua. Per trovare la via. La via la vedi in quella vacuità lì.

E con la morte nel cuore correrò per tornare.